Campo invernale: perché sempre film?

Guardare un film è così abituale da sembrare scontato. Eppure ogni volta che passiamo una serata davanti a una pellicola succedono tante cose: ci facciamo domande, pensiamo alla nostra vita, immaginiamo storie possibili anche se fantastiche.

Costruire un intero campo per adolescenti intorno a un film può sembrare un azzardo, ma è una sfida che permette di confrontarsi con la nostra fruizione quotidiana di forme d’intrattenimento. Questa azione critica porta a prendere in considerazione una varietà di temi difficilmente avvicinabili in un contesto diverso. Ogni film ha una propria voce, uno specifico punto di vista sul modo in cui alcune tematiche vengono narrate e quindi percepite dalla nostra società. Analizzando un film, quindi, non ci si pone solamente il problema del ‘Cosa’ ma anche del ‘Come.

L’ampiezza e la complessità dei temi che un film può offrire è particolarmente evidente durante la preparazione del campo che comincia sempre con un momento durante il quale ogni membro della staff mette in tavola le sensazioni e i significati che ha trovato nella pellicola. Questo lavoro di condivisione e analisi è molto importante, proprio per mettere in luce come un’opera artistica possa parlare in maniera diversa con ognuno di noi.

Questa modalità di costruzione del campo, nata come un esperimento, continua a dare ottimi risultati, soprattutto per la particolare struttura del campo invernale. Lavorare con un film permette di costruire un immaginario e un linguaggio comune più velocemente, di immergersi immediatamente nel cuore dei temi e di creare un percorso che seppur breve riesce a trovare sempre un punto d’arrivo. Quel che può variare è l’interpretazione che ciascuno dà allo stesso racconto.

Tra staff e campisti/e, durante un invernale, ci sono normalmente una decina d’anni di differenza di età ed è evidente che si abbia uno sguardo diverso sulla vita. Questo aspetto è la grande difficoltà e contemporaneamente la grande ricchezza del campo. Non sono molte, nella vita quotidiana, le occasioni che un adolescente ha di confrontarsi con degli adulti al netto di una sostanziale differenza gerarchica. E questo è altrettanto vero al contrario.

Così, per sei giorni l’anno, guardando lo stesso film e ascoltando la stessa storia possiamo incontrarci per riflettere e parlare alla pari della realtà attorno a noi, uscendone tutti e tutte arricchiti/e.

Quindi, squadra che vince non si cambia. Ci si vede, un film, il prossimo inverno!

Francesca Gatto e Jacob Zucchi
Staffisti del campo cadetti 3 – Invernale

La vacanza più bella

Quando qualcuno ti chiede cosa sia Agape siamo sempre in difficoltà e non si riesce mai ad essere convincenti. L’unico vero modo per capire cosa realmente sia questo posto è viverlo, fare un campo.
Il tema di quest’anno sembrava così carino e “fuffoloso”, apparentemente leggero se non quasi inconsistente; e invece, come ogni anno Agape ti stupisce, andando oltre qualsiasi aspettativa.
Per quanto mi riguarda, da quando avevo sei anni, la vacanza più bella è sempre stata Agape e tanto grande era la gioia man mano che si avvicinava il giorno della partenza, altrettanto lo era la tristezza e la depressione quando si tornava a casa. E quest’anno non sono state da meno, né l’una né l’altra. Questo campo è stato uno di quelli che ho vissuto più intensamente, forse perché ho dovuto dire addio a tutti quelli per cui era l’ultimo campo, ragazzi a cui sono sempre stata molto legata, la mia seconda famiglia. Certo non si tratta di un vero addio, ci rivedremo, ce lo siamo promessi. Non è stato un vero addio, tra qualche anno saremo ancora tutti li, organizzando scherzi ai cadetti o vendendo guaranito. Eppure non sarà la stessa cosa, sarà diverso, magari altrettanto bello. Perché in fondo ciò che rende Agape magico, sono proprio le persone che ci sono passate, che ci sono ora e che ci verranno.

Mi ricordo il viaggio del primo giorno, la gioia nell’attesa di rivedere tutti i vecchi amici e di conoscere persone nuove a cui trasmettere la passione per questo posto. “Passione” era uno dei termini chiave di questo campo; ci siamo chiesti, che cos’è la passione? Per giorni abbiamo tentato di definirla e ci siamo addentrati nel mondo della semantica e della retorica raggiungendo definizioni anche molto convincenti. Se dovessi visualizzare il concetto di passione nella mia mente penso che rivivrei i momenti più belli e intensi vissuti durante questi tredici campi ad Agape. Ogni anno mi ripeto ciò che devo fare: cogli ogni singolo attimo e opportunità di conoscere persone, ascolta le loro storie, i loro pensieri, aiuta chi ha bisogno, guarda nella tua anima e in quella degli altri, condividi, ama, non dare nulla per scontato, gioisci per ciò che ricevi e sii pronta a offrire quello che puoi dare.
Mi ricordo il primo giorno, i sorrisi e gli abbracci di chi rivedo ogni anno per soli dieci giorni ma che riesce a farmi sentire a casa in ogni momento, e gli sguardi curiosi, timidi e piacevolmente ingenui dei ragazzi nuovi. Li guardo negli occhi e sorrido, penso a quanto abbiamo da dirci, a quanto dobbiamo recuperare, a quanto vivremo insieme. Li guardo e sospiro, realizzando che in dieci giorni dovremo fare tutto il possibile per stare più tempo insieme, per vivere e godere di ogni singolo attimo. Incrocio sguardi di persone sconosciute, con cui non vedo l’ora di trascorrere del tempo e parlare. E poi rivedo gli staffisti, alcuni nuovi, altri che conosco dal pc1. Realizzo che è soprattutto grazie a loro che Agape mi dà tutto questo, riescono sempre a conciliare meravigliosamente momenti ludici con momenti di riflessione, risate con ragionamenti, amore con confronti e condivisone di idee. Durante alcune attività mi sento ignorante su degli argomenti; non è una brutta sensazione, anzi, è un grande stimolo ad ascoltare, prendere tutto ciò che gli altri hanno e offrire quello che porto con me. Nessuno ti giudica, si viene apprezzati per quello che siamo, liberi di parlare, di ascoltare, di cantare e di ballare, siamo liberi di amare ed essere amati, liberi di appassionarci.

Che cuore è stato un campo meraviglioso, dieci giorni di amore, condivisone e serenità in cui i legami tra di noi hanno trovato l’atmosfera ideale per stabilirsi e rafforzarsi. Mi ricordo dieci giorni di sole, la brezza frizzante del mattino quando uscivamo per accogliere i primi raggi della giornata; mi ricordo anche di essermi scottata il naso il primo giorno avendo passato ore sul prato a parlare, ridere, cantare, sorseggiare guaranito e giocare a pallavolo. Mi ricordo di Pablo, un ragazzo autistico che quest’anno ha partecipato al nostro campo, un ragazzo dolcissimo che ha dato moltissimo a ognuno di noi e ha contribuito a rendere questo campo ancora più bello… Agape è un posto per tutti e ognuno di noi è importante per il suo funzionamento. Agape ci migliora, ci rende più responsabili, ci insegna l’umiltà, ci aiuta a condividere, ci mostra come si ama. In questo posto nascono amicizie grandissime; vivendo in stretto contatto gli uni con gli altri per dieci giorni ci si riesce a conoscere veramente bene e la cosa più bella è che quando si torna a casa, nonostante l’ondata di tristezza e depressione che ti travolge, ci si sente rinnovati, realizzando di aver lasciato una parte di noi lassù, ma di aver con noi una parte di tutti gli altri. Agape mi fa sentire viva, mi sprona ad essere attiva, a conoscere, a condividere e a confrontarmi con altre realtà…

Sono distrutta al pensiero che mi mancano solo due campi per concludere il mio percorso da cadetta, ma allo stesso tempo sono consapevole di aver vissuto in questo posto alcuni dei momenti più belli della mia vita; non ho rimorsi, non ho rimpianti, solo bei ricordi e tante belle aspettative. Anche se gli anni passano e crescendo finiamo i nostri campi, lasciamo sempre una parte di noi a questo posto e alle persone che incontriamo; il ricordo di ciascuno di noi vive nei prati verdi, tra le pareti del salone, sui tavoli dei pasti, nei tetti, tra una stanza e l’altra, tra le corde delle chitarre consumate dalle dita di agapini musicisti, sugli scalini delle casette calpestati da centinaia di piedi e percorsi la maggior parte delle volte correndo, tra i tasti del pianoforte scordato del saloncino nuovo, al bar nello zucchero di canna e in un pacchetto di biscotti al cioccolato, in cucina tra un piatto e un bicchiere da asciugare, sulle coperte calde e i materassi comodi per guardare film e accoccolarsi, nell’acqua fredda delle docce dopo la gita, e in ogni altro posto.
Perché in fondo Agape siamo noi, e non verremo mai meno.

Blanca Prestini

Vita di Agape tratto da una storia vera(mente) bella

Dopo aver vissuto due anni ad Agape ho pensato di scrivere questo articolo, cercando di rispondere alle frequenti domande poste sull’argomento “vita da residente”.
Stavo per iniziare a lavorare come pizzaiolo quando ho pensato che, prima di iniziare, avrei dovuto fare questa esperienza: quindi ho scritto subito la lettera, l’ho mandata ed è stata accettata: ho iniziato entusiasta!
Sta iniziando ora il mio terzo anno qui: è settembre ed è appena finita l’estate. Dopo aver lavorato incessantemente per tre mesi, è sicuramente un trauma vedere, da un giorno all’altro, Agape vuota: nell’aria si percepisce la malinconia, ma allo stesso tempo una contentezza grandissima, perché ho conosciuto persone provenienti da tutte le parti del mondo e visto andar via amici che non scorderò mai.
Adesso, dopo la partenza dei vecchi residenti e l’arrivo dei nuovi, ci dobbiamo preparare per l’arrivo dell’inverno che qui a Prali, oltre a essere molto freddo, è anche molto lungo: ci sono alcuni lavori da finire prima che arrivi il gelido inverno e la tanta neve. Abbiamo una riunione di una settimana per organizzare il lavoro e per far capire a tutti i nuovi residenti cosa faremo durante l’anno: scelta dei settori, scelta della staff per i campi, spiegazione delle norme antincendio in caso di necessità e dei lavori per casa residenti…
Non manca, però, il divertimento: facciamo un sacco di cose in gruppo e andiamo a sciare, visto che qui la neve è tanta e possiamo stare sulle piste da ottobre/novembre fino a marzo/aprile.
Svegliarsi la mattina qui ad Agape è una delle cose che amo di più di questo posto: basta mettere un piede fuori di casa e ti ritrovi davanti a uno spettacolo ogni giorno diverso e sempre più bello che non smette mai di emozionarti.

È facile pensare che qui, durante l’inverno, ci si annoi, ma non è affatto così: nei due anni che ho trascorso qui l’inverno è proprio volato, senza che io me ne accorgessi. Lo stesso discorso vale per la solitudine: è vero, a volte ci si sente soli, ma vi assicuro che dopo tre mesi di totale frenesia, un inverno trascorso in pochi non può che far bene. Non mancano i litigi e gli amori, le gioie e i dolori: sicuramente questa è un’esperienza che porterò con me per il resto della vita. Per questo, consiglio la residenza a tutti e tutte, almeno per due anni: questo perché durante il primo ti abitui alla vita di Agape e il secondo lo assapori fino in fondo; e se non sei sazio, fai il terzo e, così, ne esci a pancia piena e con un bagaglio stracolmo di esperienze!

La consiglio per chi vuole fare un’esperienza comunitaria, per chi vuole imparare l’inglese o altre lingue semplicemente parlandole, per chi vuole fare un periodo di volontariato un po’ più lungo del solito e per tutte le persone che amano questo posto e vogliono supportarlo offrendo il proprio lavoro a tempo pieno.

Danilo “Lillo” Galloro

Quando un cadetto diventa maggiorenne

Foto di Dominyka Kukuryté
Foto di Dominyka Kukuryté

Agapini, agapine, vorrei raccontarvi la recente esperienza alla quale ho preso parte, il Campo Campolavoro, o Campo Capolavoro, come mi piace chiamarlo.
Dovreste sapere che, quest’anno, nel CCL il sottoscritto era senza ombra di dubbio il più giovane, fresco dei suoi diciotto anni (e anche il più ingenuo, ma questi sono dettagli).
Mi è stato chiesto di fare un piccolo report per Immaginaria in quanto, essendo passato direttamente dal Campo Cadetti all’esperienza del Campolavoro, sono rimasto molto colpito da una realtà che ancora non conoscevo, nonostante i miei dodici anni di assidua frequentazione di Agape.
Quello che posso dirvi, rivolgendomi soprattutto ai cadetti e alle cadette che leggeranno questo numero, è che non c’è percorso più naturale e piacevole, all’interno della vita ad Agape, di quello campista-campolavorista. In parole povere, quest’esperienza mi ha profondamente cambiato, in particolare (ovviamente) nel modo in cui ho sempre visto Agape come centro ecumenico: passare dall’essere campista, cioè “utente” di Agape, all’essere un volontario, una di quelle persone che ad Agape hanno donato la propria voglia di fare, le proprie forze e le proprie passioni, come Agape ha donato loro la possibilità di conoscersi, di imparare e di collaborare, è stata una delle decisioni più naturali che io abbia mai preso.

Non conoscendo ancora nulla di questa faccia del mondo della nostra amata “borgata” – e senza la sicurezza di poter incontrare volti più noti che ignoti, come poteva avvenire durante i Campi Cadetti – ho deciso di iscrivermi al CCL e poi di trattenermi un’altra settimana nei dintorni di Ghigo di Prali per fare qualcosa della mia estate altrimenti priva di impegni.
Il tema del CCL di quest’anno era l’auto-organizzazione, una parola di cui chiunque conosce il significato ma della quale non tutti/e comprendono l’applicazione. Come a ogni campo, la staff ci ha accompagnato in questi sei giorni indirizzando le nostre attività e coordinandoci nei momenti di lavoro, così da poter avere sessanta efficientissimi/e campolavoristi/e in grado di aiutare la struttura dove più ce n’era bisogno.
Come a ogni campo, le attività di dibattito e confronto non sono mancate, tant’è che molti non riuscivano più a distinguere la fatica dovuta al lavoro manuale da quella dovuta al “troppo sforzare” le menti… ma quello che voglio raccontarvi non è solo questo. Vorrei raccontarvi di come, appena arrivato, senza neanche il tempo di rendermene conto, ho incominciato a riconoscere i volti di quelle persone che ad Agape ci sono sempre state, anche quando per me esistevano ancora i “luoghi proibiti” e la terza casetta era solo un miraggio.
Vorrei raccontarvi di come, dopo solo qualche giorno, l’autorganizzazione alla quale si aspirava era praticamente andata a farsi benedire, ma anche di come l’abbiamo recuperata con fare da maestri/e. Vorrei raccontarvi di come ho conosciuto qualche angolo di mondo per me troppo lontano spostandomi da casa mia soltanto con un’ora e mezza in macchina. Vorrei raccontarvi di come, anche se tutte persone adulte, un paio di regole qua e là fanno sempre bene, e di come infrangerle ti faccia sentire in colpa tanto quanto durante un campo cadetti/e. Vorrei raccontarvi di quante cose sono riuscito a rompere e di quante poche sono riuscito ad aggiustare, ma nonostante tutto, vorrei che qualcuno vi raccontasse di come il mio essere un poco incapace mi sia stato perdonato. Ma, se vi raccontassi tutto, potrei rovinarvi la sorpresa che troverete la prossima volta che verrete a vedere coi vostri occhi quello che capita al CCL.

Quindi, spero che questo piccolo report abbia funzionato da “aperitivo”, e che abbia stuzzicato la vostra “fame” e la vostra voglia di venire a scoprire che cosa vuol dire diventare parte del cuore pulsante di Agape, senza troppe pretese e con tanta voglia di fare e scoprire, perché da fare ce n’è – sempre e comunque – e da scoprire ancora di più.
Un consiglio? L’inglese maccheronico è il miglior modo per attaccare bottone.

Davide Mancini

Il linguaggio agapino

Continuiamo con la pubblicazione di alcuni interessanti spunti estrapolati dalla discussione svoltasi all’AAACE 2014. Questa settimana ci concentriamo sul linguaggio Agapino domandandoci se…

Esiste ancora un linguaggio prettamente agapino?
Come linguaggio agapino alcuni intendono anche in senso lato un tipo di approccio, di ascolto e di relazione verso l’altro che è tipico di Agape e l’assemblea era omogeneamente divisa su questa questione. Alcuni sostengono che le modalità quotidiane di Agape forse un tempo potevano essere considerate molto all’avanguardia come per esempio il linguaggio inclusivo, dopodiché, a oggi, per fortuna, moltissime modalità di ascolto, di accoglienza e di accettazione dell’altro si trovano anche fuori, in altre realtà e in altre dimensioni e quindi non c’è un linguaggio prettamente agapino perché il vivere agapino lo si trova anche fuori di Agape e deve essere portato fuori di Agape, perché questo linguaggio deve far parte di noi nella pratica di ogni giorno. Si può apprendere ad Agape, ma non deve rimanere prettamente di Agape. Dall’altra parte dello schieramento non si vuole negare l’esistenza di modalità di linguaggio agapine anche al di fuori di Agape, ma questo non impedisce di parlare di un linguaggio agapino. Inoltre Agape è una comunità e il linguaggio costruisce un’identità della comunità e quindi è vero che esiste un linguaggio agapino perché fa parte dell’identità agapina. In risposta però si sostiene che allora così bisognerebbe parlare di linguaggio di campo perché ogni campo crea una propria identità e un proprio linguaggio e si rischia di arrivare ad una situazione troppo specifica. Un fattore da prendere in considerazione è anche la propria esperienza personale ad Agape perché chi ha cominciato fin da bambino a frequentare Agape, riconosce un certo linguaggio agapino perché è lì che l’ha imparato, mentre altre persone che invece hanno una storia più breve, sentono una certa mancanza di qualcosa, ma per quanto riguarda il linguaggio riconoscono che alcune cose le avevano già imparate da altre parti.

Quando invece il discorso si concentra più che altro sul lessico, allora la fazione del sì si ripopola un pochino, alcune parole come la staff e il servizio creano un poco di incomprensione in alcuni contesti rispetto a qualcosa di cui si sta parlando: se si racconta un fatto agapino spesso la gente attorno che ascolta non capisce nonostante sia un gruppo di amici perché si cerare proprio un’incomprensione di tipo lessicale.

Tre mesi di campolavoro ad Agape

Photo by Michele Comba
Photo by Michele Comba

 

Dal primo di giugno fino alla fine di settembre siamo stati ad Agape come Campolavoro. Siamo Simon dal Belgio, Sara dalla Germania e Eugenia dall’Uruguay. Nonostante background e motivazioni differenti, abbiamo condiviso e trascorso questi mesi convivendo e diventando buoni amici, supportandoci all’interno della splendida ma un po’ complicata vita comunitaria di Agape. In questi tre mesi abbiamo lavorato, abbiamo stretto amicizie e le abbiamo viste partire, abbiamo fatto feste, gite in montagna, un sacco di scherzi, giochi, notti passate a guardare le stelle (il cielo stellato sopra Agape è meraviglioso), sudoku, caffè, danze, canzoni. C’era sempre la musica; dovunque qualcuno con cui passare un po’ di tempo; le montagne attorno, rendendo ogni singolo momento stupefacente.

Abbiamo avuto una parte di responsabilità nel lavoro di Agape, ovvero pulire, fare il servizio, fare caffè al bar e anche la manutenzione. Lavorare come responsabile di un settore è molto più arricchente che farlo come un campolavorista fra gli altri: era per noi un incentivo ad arrivare in orario e a metterci dell’impegno, così il lavoro aveva più senso! Avevamo modo, così, di stabilire un maggiore contatto con i campisti e le campiste, fossero adolescenti o persone adulte: questo era possibile soprattutto lavorando in Servizio, che consiste nel preparare la tavola prima dei pasti e lavare le stoviglie. Siccome ogni giorno un gruppo diverso di campisti e campiste aiuta il campolavoro in questo settore, è stato molto divertente conoscere tutte queste persone anche attraverso il lavoro comune: in più è stato divertente coordinare una settimana un gruppo di adolescenti e la successiva “ciurma di lavaggio” di adulti. Quasi tutte le settimane c’era una serata di giochi per conoscersi a vicenda o per parlare di alcuni argomenti o per condividere opinioni personali.

Abbiamo avuto la possibilità di seguire dei campi: Simon ha partecipato al Campo Gay, che è stato meravigliosamente diverso da quello che si aspettava: alla fine di ogni giornata, per esempio, c’era un piccolo momento spirituale, che egli ricorderà per tutta la vita. Eugenia ha seguito il Campo Politico e Sara il Campo Teologico. Possiamo davvero dire di aver trovato, in qualche modo, ciò che cercavamo. Per Simon, che era già stato ad Agape in inverno e a Pasqua, quest’estate è stata come voltare pagina e trascorrere un po’ più di tempo con i residenti con cui ha stretto una bella amicizia. E siccome ognuno è sempre un po’ in cerca di se stesso/a, alcuni di noi hanno ritrovato loro stessi/e qui ad Agape, nel modo in cui volevano profondamente, una strada difficile con una bellissima destinazione.

Ora che inizia l’autunno, con un po’ di distanza possiamo dire che ne sia valsa la pena. Quest’esperienza ci ha insegnato un sacco di cose, anche su noi stessi/e: ne siamo usciti/e più forti. Quindi se qualcuno sta pensando di fare campolavoro per tutta l’estate, rispondiamo “fallo, è fantastico!”

Simon Geeraert (Belgio), Eugenia Benech (Uruguay), Sara Richter (Germania)

Tradotto dalla redazione di Agape Immaginaria.

A casa lontano da casa

 

In vista dei preparativi per l’estate agapina, pubblichiamo l’articolo di una ragazza che ha partecipato ai campi internazionali dell’estate 2012 grazie al progetto scholarship di Agape.

Photo by Michele Comba
Photo by Michele Comba

Sono membro del Freedom and Roam in Uganda e sono venuta come rappresentante della mia organizzazione ai campi di quest’anno di Agape Centro Ecumenico.

Devo dire che mi è piaciuto il soggiorno ad Agape. Il mio più grande problema è stato al giorno d’arrivo: spero solo che migliori indicazioni possano essere date a chi dovesse partecipare ai campi, soprattutto se dovesse essere la prima volta che vengono invitati ad Agape. Ma mettendo questo da parte, mi è piaciuta la diversità tra i partecipanti ai campi. Avere così tante persone provenienti da diverse nazioni è stato molto significativo. Mi ha dato differenti punti di vista da tutto il mondo. E anche se potrei offendere qualcuno, mi aspettavo di rimanere un po’ in disparte, un po’ a causa del colore della mia pelle, un po’ a causa della mia identità sessuale. Sono invece rimasta sorpresa. Mi ci sono voluti appena un paio di giorni per ambientarmi. Mentirei se non dicessi che avevo nostalgia di casa, ma dopo aver fatto amicizia, mi sentivo a casa lontano da casa. Mi ricordo in particolare la gita in montagna. Avevo giurato che non sarei andata, ma per fortuna ho ceduto alla grande insistenza di qualcuno che non voglio nominare. E’ stata una sfida arrivare in cima, ma per qualche ragione tutti hanno cominciato semplicemente a far coppia e sono salita fino in cima con gente stupenda. C’era il problema della barriera linguistica e delle differenze di età e cultura, ma tutti hanno provato a capire me e io loro; devo ammettere che ho incontrato persone stupende e posso onestamente dire che ho creato dei legami duraturi.

Non sono una persona molto religiosa e mi ero prevenuta nella mia mente e nel mio ordine di pensiero rispetto a tutto quello che sarebbe avvenuto durante il campo. Ma il programma era strutturato in maniera tale che anche io ho potuto imparare qualcosa. Al posto di lezioni sulla Bibbia, c’erano discussioni intellettuali che mi hanno permesso di aprire la mia mente ai punti di vista di persone sia religiose sia non così tanto religiose che hanno partecipato ai campi. Si è discusso anche di misticismo e di essere attenti a tutte le cose e tutte le persone che ci stanno intorno, in modo da non essere concentrati solo su se stessi.

Da Agape vado via con la capacità non di criticare ma piuttosto di rispettare e analizzare. Il lavoro anche è stato divertente, non appena ho trovato quello che faceva per me. Ogni volta che ci si fermava per caffè e sigarette durante le pause avevo la possibilità di interagire con più persone. Il campolavoro mi ha insegnato il valore della disciplina: difficile o facile che sia, il lavoro va fatto. Ed anche se qualcun altro può averlo già fatto (al posto tuo), lo scopo principale rimane quello di apprezzare il valore del lavoro duro e anche dello spirito di squadra. E non dimentichiamoci del cibo. In qualche occasione proprio non mi piaceva probabilmente perché era straniero al mio palato o perché non era preparato come sono abituata, ma ho apprezzato lo sforzo che è stato fatto per cucinarlo. In più di un’occasione invece era delizioso, abbastanza da farmi avere sempre il sorriso in faccia e aver preso cinque chili. Mi ricordo della sera dedicata a barbecue. Me la ricorderò per sempre.

Alla fine ero triste di partire, ma ringrazio per la generosità, la comprensione, la pazienza e il tempo che ci sono voluti per accettarmi così come sono. Ho imparato molto dai campi tanto che sono tornata a casa e l’ho condiviso con gli amici e colleghi della mia organizzazione. Spero che anche loro possano dargli il valore che gli do io.

Grazie a tutti.

Janice Babirye Kirabo, tradotto dalla redazione