Il volontariato ad Agape tra servizio, formazione e internazionalità – Introduzione

Riportiamo l’introduzione dell’evento on-line sul tema del volontariato ad Agape, a cura di Daniele Parizzi che ha moderato l’evento. L’evento si è svolto all’interno del ciclo di eventi on-line Agape Invita. E’ possibile rivedere l’incontro zoom sulla pagina facebook di Agape Centro Ecumenico.

Vorrei cominciare il nostro incontro non dalle montagne piemontesi, e non dal 1951, bensì dalla Sicilia e dal 1943, nel pieno della seconda guerra mondiale. In Sicilia in quegli anni vi è un giovane architetto venticinquenne che, interrotti gli studi per la guerra, è sottotenente sul fronte. Il suo nome è Leonardo Ricci. Egli racconta di aver partecipato in quel periodo a una disperata fuga nella notte, nella quale tanti sconosciuti tutti insieme cercavano di raggiungere il continente superando con delle zattere lo stretto sorvegliato da mille fucili. Il primo rifugio che trovarono appena sbarcati fu una galleria, nella quale si ritrovavano insieme uomini distrutti e affamati, e anche alcune donne e alcuni bambini. Ricci guardando la galleria pensò che quella fosse “più città della città d’oggi, più quartiere dei quartieri popolari, più casa delle case con frigidaire e lavapiatti”; il sentimento era quello di essere “tutti insieme nella stessa barca, come se la terra fosse una “nave navigante nello spazio” che raccoglie tutti insieme nello stesso unico villaggio verso la stessa unica meta”.

Questa è l’idea con cui Leonardo Ricci, quattro anni dopo, arriverà ad Prali: realizzare una città, un villaggio comunitario, uno spazio in cui l’essere insieme prevalga sui sentimenti individuali, in cui non ci siano personalismi ma ciascuno e ciascuna partecipa a un progetto collettivo. Per questo intitolerà, nel 1965, il suo libro più noto “Anonimo”: perché, come dice all’interno dell’opera, “in questo nuovo mondo non c’è posto per voi geni perché le cose che faremo insieme saranno più belle, importanti e grandi di quelle fatte da voi.”

Ad Agape, Ricci era un architetto sui generis, in quanto disegnava pochissimo, riproducendo le proprie idee in semplici schizzi. In compenso partecipava al cantiere e discuteva con lavoratori e lavoratrici. Agape sembrava essere un cantiere infinito, un sogno che non si sarebbe mai avverato. Il metodo costruttivo era molto artigianale e i progetti subivano costantemente modifiche. Erano le stesse persone, lì volontariamente, che da un lato proponevano modifiche e dall’altro realizzavano il lavoro. Racconta sempre Ricci che “la visione cantieristica in molti lavoratori provocava una sorta di timore del definitivo, del concluso, mentre il fascino dell’esperienza del campo di lavoro nasceva proprio dalla dimensione progettuale dell’impresa. Vincere la sfida contava più che realizzare il programma. Il fascino dell’idea e l’impasto di fatica e soddisfazione contavano più del muro finito”.

Il progetto era oggetto di critiche da parte di tutti. Si era cominciato a costruire senza denaro, il budget iniziale era 70.000 lire, equivalenti oggi a non più di 1.500 euro, si costruiva solo attraverso il lavoro volontario, in un luogo difficile da raggiungere, nel quale non c’era neanche una strada, che venne realizzata come una delle ultime cose prima dell’inaugurazione.

Nei primi tempi, la costruzione era sempre una continua avventura, una continua invenzione, una continua scoperta: innanzitutto si cercò di inventare una teleferica che funzionasse senza motore, cioè a contrappeso, con due cassoni, uno pieno d’acqua e uno con i materiali da tirare su. Era complesso da usare: mettendo poco peso, il carico ascendente si fermava e era molto faticoso tirarlo su “a braccia”. Mettendone troppo, saliva come un proiettile e infatti una volta spaccò la stazione di arrivo e ruppe la gamba al teleferista. Questa teleferica lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, giorno e notte per portar su tutti i materiali occorrenti alla costruzione.

Nei primi anni, mancando i soldi per pagare il cemento, furono volontari e volontarie a fare la calce. Per farlo venne riparato un vecchio forno in disuso, costruito a forma di torre rotonda. Un gruppo di sette giovani per due mesi lavorò al forno, prima sradicando radici per avere il calore più forte, poi trasportando il legno, scavando e trasportando il minerale, caricandolo nel forno; poi lasciandolo dieci giorni e dieci notti con il fuoco continuo per portarlo ad alta temperatura. In questi dieci giorni e dieci notti il calore era infernale, e i giovani rimanevano lì per ravvivarlo. Chi si avvicinava al forno si bagnava prima con un secchio d’acqua per sopportarlo, poi buttava un legno, con un bastone lo spingeva dentro e balzava subito fuori, fumante. Tullio Vinay racconta che questo forno si trovava a tre ore di cammino da Prali e che lui tutti i giorni faceva questa strada a piedi per controllare il lavoro e sostenere moralmente questi sette giovani. Produssero alla fine 250 quintali di calce viva. Racconta Vinay: “quando ebbi il primo pezzo in mano, a me pareva di aver l’Agape in pietra. Ecco, avevan fatto il loro motto: “tutto per Agape”, Niente conta, tutto per Agape.”

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