Campo invernale: perché sempre film?

Guardare un film è così abituale da sembrare scontato. Eppure ogni volta che passiamo una serata davanti a una pellicola succedono tante cose: ci facciamo domande, pensiamo alla nostra vita, immaginiamo storie possibili anche se fantastiche.

Costruire un intero campo per adolescenti intorno a un film può sembrare un azzardo, ma è una sfida che permette di confrontarsi con la nostra fruizione quotidiana di forme d’intrattenimento. Questa azione critica porta a prendere in considerazione una varietà di temi difficilmente avvicinabili in un contesto diverso. Ogni film ha una propria voce, uno specifico punto di vista sul modo in cui alcune tematiche vengono narrate e quindi percepite dalla nostra società. Analizzando un film, quindi, non ci si pone solamente il problema del ‘Cosa’ ma anche del ‘Come.

L’ampiezza e la complessità dei temi che un film può offrire è particolarmente evidente durante la preparazione del campo che comincia sempre con un momento durante il quale ogni membro della staff mette in tavola le sensazioni e i significati che ha trovato nella pellicola. Questo lavoro di condivisione e analisi è molto importante, proprio per mettere in luce come un’opera artistica possa parlare in maniera diversa con ognuno di noi.

Questa modalità di costruzione del campo, nata come un esperimento, continua a dare ottimi risultati, soprattutto per la particolare struttura del campo invernale. Lavorare con un film permette di costruire un immaginario e un linguaggio comune più velocemente, di immergersi immediatamente nel cuore dei temi e di creare un percorso che seppur breve riesce a trovare sempre un punto d’arrivo. Quel che può variare è l’interpretazione che ciascuno dà allo stesso racconto.

Tra staff e campisti/e, durante un invernale, ci sono normalmente una decina d’anni di differenza di età ed è evidente che si abbia uno sguardo diverso sulla vita. Questo aspetto è la grande difficoltà e contemporaneamente la grande ricchezza del campo. Non sono molte, nella vita quotidiana, le occasioni che un adolescente ha di confrontarsi con degli adulti al netto di una sostanziale differenza gerarchica. E questo è altrettanto vero al contrario.

Così, per sei giorni l’anno, guardando lo stesso film e ascoltando la stessa storia possiamo incontrarci per riflettere e parlare alla pari della realtà attorno a noi, uscendone tutti e tutte arricchiti/e.

Quindi, squadra che vince non si cambia. Ci si vede, un film, il prossimo inverno!

Francesca Gatto e Jacob Zucchi
Staffisti del campo cadetti 3 – Invernale

Un tuffo in Agape

1926629_10152346245826203_8661728972550823820_nA luglio mi son buttato. Dopo aver sentito parlare il mio amico Sandro per mesi e mesi delle esperienze da lui maturate ai campi gay organizzati al centro ecumenico Agape di Prali, ho deciso di raccogliere il coraggio, mettere da parte altre alternative più consuete per il periodo estivo e prendermi una settimana di ferie per verificare con i miei occhi quale fosse esattamente la realtà rappresentatami con tanto entusiasmo.
Con tutto il necessario scetticismo e con una decisa riduzione di aspettative. In fondo comunque si trattava di un periodo in montagna, almeno avrei respirato aria pura e fresca, vabbé, mi ripetevo.

Essere in una struttura valdese mi dava una rassicurante fiducia epidermica, di quelle emozionali, acquisita per proprietà transitiva. L’anno precedente sul Camino di Santiago avevo conosciuto Anna, di confessione valdese, una persona meravigliosa entrata di diritto nella mia “famiglia”, non quella di nascita, ma quella che ci creiamo naturalmente durante il percorso di vita. E quindi con i valdesi avevo già un piccolo legame emozionalmente confortevole, una sorta di conoscenza indotta.
Arrivato, nonostante i quasi cinquant’anni, ho provato comunque quel classico timore tipico degli adolescenti (che in fondo non ci abbandona per tutta la vita) quando si trovano davanti ad un ambiente non domestico, sconosciuto. Teoricamente confortato dalla presenza di tanti altri “ragazzi” omosessuali di tante età, e quindi con un minimo comun denominatore, ma contemporaneamente disorientato dalla loro specifica identità di persone.

“Poco a poco”, mi son detto, ed è cominciata l’avventura.

Dal titolo e dalla sintesi delle tematiche del campo era evidente che l’avventura non sarebbe stata leggera. “Corpo a corpo. La sessualità”. Da immaginarsi le barriere che immediatamente ho pianificato per non espormi, per proteggermi, per non farmi coinvolgere. Inutili da subito. I primi laboratori e le prime esperienze ci hanno messo immediatamente a contatto con gli altri, essere davanti alle stesse sollecitazioni ci ha fatto pian piano perdere quella diffidenza verso l’altruità e  aprirci offrendo all’esterno un po’ delle nostre emozioni, fossero queste diffidenza, paura o entusiasmo.
E’ stato un crescendo, un coinvolgimento sempre maggiore nelle esperienze proposte dalla Staff e vissute sempre più  intensamente. E, in maniera sorprendente, nonostante tutte le mie riserve e cautele iniziali, è venuta fuori questa voglia prepotente di mostrarmi agli altri per come sono, nella mia identità, o per meglio dire nel poliedro delle mie identità, di persona, di omosessuale, di soggetto di sesso maschile, di funzionario, di amico e quante altre ancora ce ne stanno, che fanno nel loro complesso “me”.
Una spontaneità difficilmente provata nella sua pienezza durante quella che mi verrebbe da chiamare la “vita normale”, intendendo con questa formula il quotidiano professionale, quello dello studio, o anche dello svago, dove spesso capita la sensazione di parziale accoglienza da parte degli altri, non necessariamente perché nascondiamo alcuni aspetti di noi per non esporci, ma semplicemente perché questi aspetti non vengono ascoltati, visti, e non dico compresi ma almeno rispettati con l’attenzione che meritano, e quindi ci risulta inutile condividerli.
Una spontaneità nella quale ho scoperto, o meglio riscoperto, lati dimenticati, quali la competizione (ma quella sana!) e il senso di appartenenza a una squadra, nei giochi serali, oppure nel bel laboratorio sul rugby. Qui  siamo stati messi davanti alla sfida con uno sport per noi nuovo, dove al timore reverenziale di una fisicità spesso mai esplorata, quasi negazione di una maschilità che invece ci appartiene profondamente, si è sostituito un entusiasmo strisciante che a fine giornata ci ha fatto sentire orgogliosi di aver abbattuto una paura, una resistenza, sebbene in un contesto “protetto”. Orgogliosi di aver scoperto delle capacità, entrando pian piano in un ambito considerato erroneamente estraneo, quasi vietato, più da noi stessi che dagli altri. E chi se ne frega dei lividi e di qualche bottarella, quando mai ci saremmo messi “in gioco” così, e soprattutto, quando mai ci saremmo messi davanti a noi stessi senza un autogiudizio immobilizzante?

Con la stessa spontaneità mi sono abbandonato al laboratorio sulla percezione di un noi futuro, di un noi anziano.  Costruire un’immagine di me fra trenta o quarant’anni è stato un inventarsi senza modelli, concedendomi, anche se con fatica, la possibilità di anni sereni e consapevoli. Una vera conquista.
Alla fine l”esperienza è stata unica. Ma fortunatamente ripetibile. Già dal prossimo anno.
In cambio del coraggio di affrontarla ne ho avuto un ritorno notevole: la maggiore conoscenza di me, il miglior rapporto con la mia fisicità, e, di sorprendente importanza, una consapevolezza meno grossolana delle identità degli altri, dei loro pensieri, delle loro emozioni, delle loro sofferenze.
Identità uniche e proprie, a volte solo sfiorate per una settimana, a volte da prendere per mano con la voglia di fare un pezzo di strada assieme, ma che comunque rimangono quali elementi di risonanza nel mio vivere, e mi fanno sentire, come poche volte, parte di un’umanità in viaggio.

Francesco Ginestretti

La comunicazione IN Agape

Concludiamo questa serie di domande sperando che siano state uno spunto interessante anche per chi non ha partecipato alla “diretta” del 30 agosto, ma ha partecipato qui, sulle pagine del sito. Ogni commenti ricevuto è stato prezioso e speriamo che la comunicazione bilaterale attraverso il sito si sviluppi sempre di più! L’ultima domanda riguarda una questione interna:

La comunicazione tra tutte le parti di Agape è necessaria?
È stata rilevata la natura duplice di questo tipo di comunicazione: per essa si intende tanto lo scambio di informazioni necessario al funzionamento di Agape come struttura ricettiva, quanto ciò che dona al Centro la propria peculiarità, nei termini di ascolto, comprensione e scambio. Si è lamentata la mancanza di una spiegazione del progetto di Agape in alcuni campi e come questa mancanza ne abbia minato l’atmosfera generale: chi arriva per la prima volta affronta alcune difficoltà per entrare nei meccanismi e nel linguaggio di Agape: la presentazione del progetto dovrebbe essere, quindi, un momento istituzionalizzato anche nei campi adulti.

Sebbene si sia tutti e tutte d’accordo sulla necessità della comunicazione fra le parti, alcune persone rilevano un’insistenza eccessiva su questo bisogno, che ha come conseguenza l’allungamento dei tempi decisionali, in attesa che tutti e tutte esprimano la propria posizione.

Il linguaggio agapino

Continuiamo con la pubblicazione di alcuni interessanti spunti estrapolati dalla discussione svoltasi all’AAACE 2014. Questa settimana ci concentriamo sul linguaggio Agapino domandandoci se…

Esiste ancora un linguaggio prettamente agapino?
Come linguaggio agapino alcuni intendono anche in senso lato un tipo di approccio, di ascolto e di relazione verso l’altro che è tipico di Agape e l’assemblea era omogeneamente divisa su questa questione. Alcuni sostengono che le modalità quotidiane di Agape forse un tempo potevano essere considerate molto all’avanguardia come per esempio il linguaggio inclusivo, dopodiché, a oggi, per fortuna, moltissime modalità di ascolto, di accoglienza e di accettazione dell’altro si trovano anche fuori, in altre realtà e in altre dimensioni e quindi non c’è un linguaggio prettamente agapino perché il vivere agapino lo si trova anche fuori di Agape e deve essere portato fuori di Agape, perché questo linguaggio deve far parte di noi nella pratica di ogni giorno. Si può apprendere ad Agape, ma non deve rimanere prettamente di Agape. Dall’altra parte dello schieramento non si vuole negare l’esistenza di modalità di linguaggio agapine anche al di fuori di Agape, ma questo non impedisce di parlare di un linguaggio agapino. Inoltre Agape è una comunità e il linguaggio costruisce un’identità della comunità e quindi è vero che esiste un linguaggio agapino perché fa parte dell’identità agapina. In risposta però si sostiene che allora così bisognerebbe parlare di linguaggio di campo perché ogni campo crea una propria identità e un proprio linguaggio e si rischia di arrivare ad una situazione troppo specifica. Un fattore da prendere in considerazione è anche la propria esperienza personale ad Agape perché chi ha cominciato fin da bambino a frequentare Agape, riconosce un certo linguaggio agapino perché è lì che l’ha imparato, mentre altre persone che invece hanno una storia più breve, sentono una certa mancanza di qualcosa, ma per quanto riguarda il linguaggio riconoscono che alcune cose le avevano già imparate da altre parti.

Quando invece il discorso si concentra più che altro sul lessico, allora la fazione del sì si ripopola un pochino, alcune parole come la staff e il servizio creano un poco di incomprensione in alcuni contesti rispetto a qualcosa di cui si sta parlando: se si racconta un fatto agapino spesso la gente attorno che ascolta non capisce nonostante sia un gruppo di amici perché si cerare proprio un’incomprensione di tipo lessicale.

La comunicazione intergenerazionale

Ed eccoci con il nostro appuntamento settimanale sulla comunicazione. La domanda della settimana riguarda la comunicazione intergenerazionale: è possibile, non è possibile… Boh!?! Dicci cosa ne pensi!

La comunicazione intergenerazionale è possibile solo al campo Genitori e Figli?
Soltanto due persone si sono dichiarate d’accordo con questa frase perché, pur auspicandosi la possibilità di questo tipo di comunicazione, rilevano che, per ora, ciò non è stato possibile. A sostegno di questa tesi, sono stati portati gli esempi dei campi intergenerazionali invernali, del campolavoro che raramente favorisce lo scambio tra generazioni differenti, sviluppando un’egemonia del gruppo dei più giovani a discapito degli altri, e dei campi internazionali dove spesso si creano gruppi divisi per nazionalità e lingua. Dall’altra parte, invece, si sostiene che una comunicazione intergenerazionale avvenga costantemente, ad esempio fra campisti/e minorenni e la staff. Tutti e tutte convengono sul fatto che non ci sia un momento istituzionalizzato per la comunicazione intergenerazionale ad Agape: in passato, ad esempio, i campi giovani erano un’occasione di questo tipo.

Un altro modo di intendere la comunicazione fra generazioni è quello di proporre campi per minori su temi, anche storici, che appartengono più a un’altra generazione. L’attenzione posta ai temi ha fatto emergere l’esigenza di proporre campi tematici, senza preclusione d’età, riguardanti argomenti di interesse davvero trasversale.

Il passaparola ad Agape

Il 31 agosto si è svolta l’annuale assemblea degli amici e delle amiche di Agape Centro Ecumenico (AAACE); il tema di quest’anno era la comunicazione. Dopo alcuni giochi a tema, il pomeriggio è stato dedicato alla discussione, condotta nella forma tipicamente agapina del gioco di schieramento: a un’affermazione, spesso provocatoria, la platea deve rispondere schierandosi a favore o contro; a questo punto comincia la discussione e ogni fazione cerca di convincere il maggior numero di partecipanti.

A partire da questo articolo per quattro lunedì alle 14 pubblicheremo qui un riassunto di ciò che è emerso durante il dibattito, sperando così di portare la questione anche al di fuori delle mura del centro e coinvolgere così anche chi alla AAACE non è riuscito/a a venire. Vogliamo che il sito sia potenziato e sfruttato come forum aperto attraverso i commenti che si possono pubblicare in risposta agli articoli con l’obiettivo di migliorare la bilateralità della comunicazione di Agape e aprire un canale per interfacciarsi a distanza con il centro.

Questo il primo spunto di riflessione:

Il passaparola è l’unico modo di comunicare Agape e farla conoscere?
La maggior parte dei/lle partecipanti si è dichiarata assolutamente contraria: la parola è spettata, quindi, alle poche persone che condividevano la frase, le quali hanno sostenuto che nulla sia tanto efficace quanto la comunicazione tramite il passaparola di chi ha vissuto direttamente l’esperienza di Agape. Per contro, è stato portato l’esempio dei molti flyer e volantini stampati dai campi Gay, Genitori e Figli/e e Lesbico che, secondo l’opinione dei più, hanno incrementato il numero dei propri iscritti. Per il campo Gay, ad esempio, la stampa di materiale promozionale ha risolto l’ostacolo, molto sentito nel mondo omosessuale, di partecipare a un campo in un “Centro ecumenico”. Il fronte dei sì ha ribattuto, tuttavia, che anche la consegna di volantini è più efficace se accompagnata da una piccola spiegazione da parte di chi ad Agape c’è già stato/a. La redazione di Agape Immaginaria ha portato poi l’esempio della proposta ricevuta da parte della Chiesa valdese di Milano, in seguito a un articolo pubblicato su queste pagine, per una possibile collaborazione nel progetto di certificazione sull’eco-sostenibilità “Gallo Verde”.

Si è cercato, a questo punto, di distinguere tra comunicazione nel senso di promozione e comunicazione come informazione a proposito di ciò che ad Agape si fa, riconoscendo in quest’ultima accezione una mancanza di bilateralità che favorisca la discussione e la proposta: il sito, che potrebbe essere sede privilegiata di questo scambio, è giudicato povero, poco aggiornato e statico.

Voi cosa ne pensate?