Campo invernale: perché sempre film?

Guardare un film è così abituale da sembrare scontato. Eppure ogni volta che passiamo una serata davanti a una pellicola succedono tante cose: ci facciamo domande, pensiamo alla nostra vita, immaginiamo storie possibili anche se fantastiche.

Costruire un intero campo per adolescenti intorno a un film può sembrare un azzardo, ma è una sfida che permette di confrontarsi con la nostra fruizione quotidiana di forme d’intrattenimento. Questa azione critica porta a prendere in considerazione una varietà di temi difficilmente avvicinabili in un contesto diverso. Ogni film ha una propria voce, uno specifico punto di vista sul modo in cui alcune tematiche vengono narrate e quindi percepite dalla nostra società. Analizzando un film, quindi, non ci si pone solamente il problema del ‘Cosa’ ma anche del ‘Come.

L’ampiezza e la complessità dei temi che un film può offrire è particolarmente evidente durante la preparazione del campo che comincia sempre con un momento durante il quale ogni membro della staff mette in tavola le sensazioni e i significati che ha trovato nella pellicola. Questo lavoro di condivisione e analisi è molto importante, proprio per mettere in luce come un’opera artistica possa parlare in maniera diversa con ognuno di noi.

Questa modalità di costruzione del campo, nata come un esperimento, continua a dare ottimi risultati, soprattutto per la particolare struttura del campo invernale. Lavorare con un film permette di costruire un immaginario e un linguaggio comune più velocemente, di immergersi immediatamente nel cuore dei temi e di creare un percorso che seppur breve riesce a trovare sempre un punto d’arrivo. Quel che può variare è l’interpretazione che ciascuno dà allo stesso racconto.

Tra staff e campisti/e, durante un invernale, ci sono normalmente una decina d’anni di differenza di età ed è evidente che si abbia uno sguardo diverso sulla vita. Questo aspetto è la grande difficoltà e contemporaneamente la grande ricchezza del campo. Non sono molte, nella vita quotidiana, le occasioni che un adolescente ha di confrontarsi con degli adulti al netto di una sostanziale differenza gerarchica. E questo è altrettanto vero al contrario.

Così, per sei giorni l’anno, guardando lo stesso film e ascoltando la stessa storia possiamo incontrarci per riflettere e parlare alla pari della realtà attorno a noi, uscendone tutti e tutte arricchiti/e.

Quindi, squadra che vince non si cambia. Ci si vede, un film, il prossimo inverno!

Francesca Gatto e Jacob Zucchi
Staffisti del campo cadetti 3 – Invernale

Rubrica: la prima volta non si scorda mai

Foto di Michele Comba
Foto di Michele Comba

Dimenticati del concetto di vita “normale”, imposto da chissà quale autorità o istituzione o quant’altro, quando entri ad Agape.

Agape é il posto dove ti puoi spogliare di ogni blocco che ti è stato trasmesso; qui ti senti libero o libera di parlare senza provare il senso di giudizio, esiste l’accettazione di un’ idea differente confrontandosi con tante persone diverse fra loro.

Questo è ciò che ho provato al mio primo campo, il campo formazione che consiste nel formare e spiegare come funziona una staff ad Agape. Questo campo credo sia fondamentale considerando che essere uno o una staffista, da quanto ho immaginato, non è affatto semplice e si possono presentare problematiche non indifferenti. Tramite le attività è emerso che in una staff ci deve essere complicità, collaborazione, ascolto, aiuto ecc.. cercando di essere uniti e unite il più possibile.

In questo specifico campo il tema era quello della responsabilità quindi si è cercato di interpellare anche le nostre responsabilità che abbiamo nella vita. Ci siamo confrontati/e molto sia nelle attività sia negli spazi di pausa e relax, per me é stata una vera e propria apertura degli orizzonti.

Agape è un mondo dove non ho vissuto il giudizio e ho assaporato l’amicizia con persone conosciute anche da poco. In questo posto ci ho lasciato il cuore perché é uno dei pochi posti dove mi sono sentita libera di essere me stessa e protetta dalla discriminazione. Sono una ragazza albanese di 18 anni, e in quei giorni ad Agape non ho avuto timore di raccontarlo anzi ho vissuto questa mia diversità come una ricchezza.

Un tuffo in Agape

1926629_10152346245826203_8661728972550823820_nA luglio mi son buttato. Dopo aver sentito parlare il mio amico Sandro per mesi e mesi delle esperienze da lui maturate ai campi gay organizzati al centro ecumenico Agape di Prali, ho deciso di raccogliere il coraggio, mettere da parte altre alternative più consuete per il periodo estivo e prendermi una settimana di ferie per verificare con i miei occhi quale fosse esattamente la realtà rappresentatami con tanto entusiasmo.
Con tutto il necessario scetticismo e con una decisa riduzione di aspettative. In fondo comunque si trattava di un periodo in montagna, almeno avrei respirato aria pura e fresca, vabbé, mi ripetevo.

Essere in una struttura valdese mi dava una rassicurante fiducia epidermica, di quelle emozionali, acquisita per proprietà transitiva. L’anno precedente sul Camino di Santiago avevo conosciuto Anna, di confessione valdese, una persona meravigliosa entrata di diritto nella mia “famiglia”, non quella di nascita, ma quella che ci creiamo naturalmente durante il percorso di vita. E quindi con i valdesi avevo già un piccolo legame emozionalmente confortevole, una sorta di conoscenza indotta.
Arrivato, nonostante i quasi cinquant’anni, ho provato comunque quel classico timore tipico degli adolescenti (che in fondo non ci abbandona per tutta la vita) quando si trovano davanti ad un ambiente non domestico, sconosciuto. Teoricamente confortato dalla presenza di tanti altri “ragazzi” omosessuali di tante età, e quindi con un minimo comun denominatore, ma contemporaneamente disorientato dalla loro specifica identità di persone.

“Poco a poco”, mi son detto, ed è cominciata l’avventura.

Dal titolo e dalla sintesi delle tematiche del campo era evidente che l’avventura non sarebbe stata leggera. “Corpo a corpo. La sessualità”. Da immaginarsi le barriere che immediatamente ho pianificato per non espormi, per proteggermi, per non farmi coinvolgere. Inutili da subito. I primi laboratori e le prime esperienze ci hanno messo immediatamente a contatto con gli altri, essere davanti alle stesse sollecitazioni ci ha fatto pian piano perdere quella diffidenza verso l’altruità e  aprirci offrendo all’esterno un po’ delle nostre emozioni, fossero queste diffidenza, paura o entusiasmo.
E’ stato un crescendo, un coinvolgimento sempre maggiore nelle esperienze proposte dalla Staff e vissute sempre più  intensamente. E, in maniera sorprendente, nonostante tutte le mie riserve e cautele iniziali, è venuta fuori questa voglia prepotente di mostrarmi agli altri per come sono, nella mia identità, o per meglio dire nel poliedro delle mie identità, di persona, di omosessuale, di soggetto di sesso maschile, di funzionario, di amico e quante altre ancora ce ne stanno, che fanno nel loro complesso “me”.
Una spontaneità difficilmente provata nella sua pienezza durante quella che mi verrebbe da chiamare la “vita normale”, intendendo con questa formula il quotidiano professionale, quello dello studio, o anche dello svago, dove spesso capita la sensazione di parziale accoglienza da parte degli altri, non necessariamente perché nascondiamo alcuni aspetti di noi per non esporci, ma semplicemente perché questi aspetti non vengono ascoltati, visti, e non dico compresi ma almeno rispettati con l’attenzione che meritano, e quindi ci risulta inutile condividerli.
Una spontaneità nella quale ho scoperto, o meglio riscoperto, lati dimenticati, quali la competizione (ma quella sana!) e il senso di appartenenza a una squadra, nei giochi serali, oppure nel bel laboratorio sul rugby. Qui  siamo stati messi davanti alla sfida con uno sport per noi nuovo, dove al timore reverenziale di una fisicità spesso mai esplorata, quasi negazione di una maschilità che invece ci appartiene profondamente, si è sostituito un entusiasmo strisciante che a fine giornata ci ha fatto sentire orgogliosi di aver abbattuto una paura, una resistenza, sebbene in un contesto “protetto”. Orgogliosi di aver scoperto delle capacità, entrando pian piano in un ambito considerato erroneamente estraneo, quasi vietato, più da noi stessi che dagli altri. E chi se ne frega dei lividi e di qualche bottarella, quando mai ci saremmo messi “in gioco” così, e soprattutto, quando mai ci saremmo messi davanti a noi stessi senza un autogiudizio immobilizzante?

Con la stessa spontaneità mi sono abbandonato al laboratorio sulla percezione di un noi futuro, di un noi anziano.  Costruire un’immagine di me fra trenta o quarant’anni è stato un inventarsi senza modelli, concedendomi, anche se con fatica, la possibilità di anni sereni e consapevoli. Una vera conquista.
Alla fine l”esperienza è stata unica. Ma fortunatamente ripetibile. Già dal prossimo anno.
In cambio del coraggio di affrontarla ne ho avuto un ritorno notevole: la maggiore conoscenza di me, il miglior rapporto con la mia fisicità, e, di sorprendente importanza, una consapevolezza meno grossolana delle identità degli altri, dei loro pensieri, delle loro emozioni, delle loro sofferenze.
Identità uniche e proprie, a volte solo sfiorate per una settimana, a volte da prendere per mano con la voglia di fare un pezzo di strada assieme, ma che comunque rimangono quali elementi di risonanza nel mio vivere, e mi fanno sentire, come poche volte, parte di un’umanità in viaggio.

Francesco Ginestretti

La vacanza più bella

Quando qualcuno ti chiede cosa sia Agape siamo sempre in difficoltà e non si riesce mai ad essere convincenti. L’unico vero modo per capire cosa realmente sia questo posto è viverlo, fare un campo.
Il tema di quest’anno sembrava così carino e “fuffoloso”, apparentemente leggero se non quasi inconsistente; e invece, come ogni anno Agape ti stupisce, andando oltre qualsiasi aspettativa.
Per quanto mi riguarda, da quando avevo sei anni, la vacanza più bella è sempre stata Agape e tanto grande era la gioia man mano che si avvicinava il giorno della partenza, altrettanto lo era la tristezza e la depressione quando si tornava a casa. E quest’anno non sono state da meno, né l’una né l’altra. Questo campo è stato uno di quelli che ho vissuto più intensamente, forse perché ho dovuto dire addio a tutti quelli per cui era l’ultimo campo, ragazzi a cui sono sempre stata molto legata, la mia seconda famiglia. Certo non si tratta di un vero addio, ci rivedremo, ce lo siamo promessi. Non è stato un vero addio, tra qualche anno saremo ancora tutti li, organizzando scherzi ai cadetti o vendendo guaranito. Eppure non sarà la stessa cosa, sarà diverso, magari altrettanto bello. Perché in fondo ciò che rende Agape magico, sono proprio le persone che ci sono passate, che ci sono ora e che ci verranno.

Mi ricordo il viaggio del primo giorno, la gioia nell’attesa di rivedere tutti i vecchi amici e di conoscere persone nuove a cui trasmettere la passione per questo posto. “Passione” era uno dei termini chiave di questo campo; ci siamo chiesti, che cos’è la passione? Per giorni abbiamo tentato di definirla e ci siamo addentrati nel mondo della semantica e della retorica raggiungendo definizioni anche molto convincenti. Se dovessi visualizzare il concetto di passione nella mia mente penso che rivivrei i momenti più belli e intensi vissuti durante questi tredici campi ad Agape. Ogni anno mi ripeto ciò che devo fare: cogli ogni singolo attimo e opportunità di conoscere persone, ascolta le loro storie, i loro pensieri, aiuta chi ha bisogno, guarda nella tua anima e in quella degli altri, condividi, ama, non dare nulla per scontato, gioisci per ciò che ricevi e sii pronta a offrire quello che puoi dare.
Mi ricordo il primo giorno, i sorrisi e gli abbracci di chi rivedo ogni anno per soli dieci giorni ma che riesce a farmi sentire a casa in ogni momento, e gli sguardi curiosi, timidi e piacevolmente ingenui dei ragazzi nuovi. Li guardo negli occhi e sorrido, penso a quanto abbiamo da dirci, a quanto dobbiamo recuperare, a quanto vivremo insieme. Li guardo e sospiro, realizzando che in dieci giorni dovremo fare tutto il possibile per stare più tempo insieme, per vivere e godere di ogni singolo attimo. Incrocio sguardi di persone sconosciute, con cui non vedo l’ora di trascorrere del tempo e parlare. E poi rivedo gli staffisti, alcuni nuovi, altri che conosco dal pc1. Realizzo che è soprattutto grazie a loro che Agape mi dà tutto questo, riescono sempre a conciliare meravigliosamente momenti ludici con momenti di riflessione, risate con ragionamenti, amore con confronti e condivisone di idee. Durante alcune attività mi sento ignorante su degli argomenti; non è una brutta sensazione, anzi, è un grande stimolo ad ascoltare, prendere tutto ciò che gli altri hanno e offrire quello che porto con me. Nessuno ti giudica, si viene apprezzati per quello che siamo, liberi di parlare, di ascoltare, di cantare e di ballare, siamo liberi di amare ed essere amati, liberi di appassionarci.

Che cuore è stato un campo meraviglioso, dieci giorni di amore, condivisone e serenità in cui i legami tra di noi hanno trovato l’atmosfera ideale per stabilirsi e rafforzarsi. Mi ricordo dieci giorni di sole, la brezza frizzante del mattino quando uscivamo per accogliere i primi raggi della giornata; mi ricordo anche di essermi scottata il naso il primo giorno avendo passato ore sul prato a parlare, ridere, cantare, sorseggiare guaranito e giocare a pallavolo. Mi ricordo di Pablo, un ragazzo autistico che quest’anno ha partecipato al nostro campo, un ragazzo dolcissimo che ha dato moltissimo a ognuno di noi e ha contribuito a rendere questo campo ancora più bello… Agape è un posto per tutti e ognuno di noi è importante per il suo funzionamento. Agape ci migliora, ci rende più responsabili, ci insegna l’umiltà, ci aiuta a condividere, ci mostra come si ama. In questo posto nascono amicizie grandissime; vivendo in stretto contatto gli uni con gli altri per dieci giorni ci si riesce a conoscere veramente bene e la cosa più bella è che quando si torna a casa, nonostante l’ondata di tristezza e depressione che ti travolge, ci si sente rinnovati, realizzando di aver lasciato una parte di noi lassù, ma di aver con noi una parte di tutti gli altri. Agape mi fa sentire viva, mi sprona ad essere attiva, a conoscere, a condividere e a confrontarmi con altre realtà…

Sono distrutta al pensiero che mi mancano solo due campi per concludere il mio percorso da cadetta, ma allo stesso tempo sono consapevole di aver vissuto in questo posto alcuni dei momenti più belli della mia vita; non ho rimorsi, non ho rimpianti, solo bei ricordi e tante belle aspettative. Anche se gli anni passano e crescendo finiamo i nostri campi, lasciamo sempre una parte di noi a questo posto e alle persone che incontriamo; il ricordo di ciascuno di noi vive nei prati verdi, tra le pareti del salone, sui tavoli dei pasti, nei tetti, tra una stanza e l’altra, tra le corde delle chitarre consumate dalle dita di agapini musicisti, sugli scalini delle casette calpestati da centinaia di piedi e percorsi la maggior parte delle volte correndo, tra i tasti del pianoforte scordato del saloncino nuovo, al bar nello zucchero di canna e in un pacchetto di biscotti al cioccolato, in cucina tra un piatto e un bicchiere da asciugare, sulle coperte calde e i materassi comodi per guardare film e accoccolarsi, nell’acqua fredda delle docce dopo la gita, e in ogni altro posto.
Perché in fondo Agape siamo noi, e non verremo mai meno.

Blanca Prestini

Vita di Agape tratto da una storia vera(mente) bella

Dopo aver vissuto due anni ad Agape ho pensato di scrivere questo articolo, cercando di rispondere alle frequenti domande poste sull’argomento “vita da residente”.
Stavo per iniziare a lavorare come pizzaiolo quando ho pensato che, prima di iniziare, avrei dovuto fare questa esperienza: quindi ho scritto subito la lettera, l’ho mandata ed è stata accettata: ho iniziato entusiasta!
Sta iniziando ora il mio terzo anno qui: è settembre ed è appena finita l’estate. Dopo aver lavorato incessantemente per tre mesi, è sicuramente un trauma vedere, da un giorno all’altro, Agape vuota: nell’aria si percepisce la malinconia, ma allo stesso tempo una contentezza grandissima, perché ho conosciuto persone provenienti da tutte le parti del mondo e visto andar via amici che non scorderò mai.
Adesso, dopo la partenza dei vecchi residenti e l’arrivo dei nuovi, ci dobbiamo preparare per l’arrivo dell’inverno che qui a Prali, oltre a essere molto freddo, è anche molto lungo: ci sono alcuni lavori da finire prima che arrivi il gelido inverno e la tanta neve. Abbiamo una riunione di una settimana per organizzare il lavoro e per far capire a tutti i nuovi residenti cosa faremo durante l’anno: scelta dei settori, scelta della staff per i campi, spiegazione delle norme antincendio in caso di necessità e dei lavori per casa residenti…
Non manca, però, il divertimento: facciamo un sacco di cose in gruppo e andiamo a sciare, visto che qui la neve è tanta e possiamo stare sulle piste da ottobre/novembre fino a marzo/aprile.
Svegliarsi la mattina qui ad Agape è una delle cose che amo di più di questo posto: basta mettere un piede fuori di casa e ti ritrovi davanti a uno spettacolo ogni giorno diverso e sempre più bello che non smette mai di emozionarti.

È facile pensare che qui, durante l’inverno, ci si annoi, ma non è affatto così: nei due anni che ho trascorso qui l’inverno è proprio volato, senza che io me ne accorgessi. Lo stesso discorso vale per la solitudine: è vero, a volte ci si sente soli, ma vi assicuro che dopo tre mesi di totale frenesia, un inverno trascorso in pochi non può che far bene. Non mancano i litigi e gli amori, le gioie e i dolori: sicuramente questa è un’esperienza che porterò con me per il resto della vita. Per questo, consiglio la residenza a tutti e tutte, almeno per due anni: questo perché durante il primo ti abitui alla vita di Agape e il secondo lo assapori fino in fondo; e se non sei sazio, fai il terzo e, così, ne esci a pancia piena e con un bagaglio stracolmo di esperienze!

La consiglio per chi vuole fare un’esperienza comunitaria, per chi vuole imparare l’inglese o altre lingue semplicemente parlandole, per chi vuole fare un periodo di volontariato un po’ più lungo del solito e per tutte le persone che amano questo posto e vogliono supportarlo offrendo il proprio lavoro a tempo pieno.

Danilo “Lillo” Galloro

Quando un cadetto diventa maggiorenne

Foto di Dominyka Kukuryté
Foto di Dominyka Kukuryté

Agapini, agapine, vorrei raccontarvi la recente esperienza alla quale ho preso parte, il Campo Campolavoro, o Campo Capolavoro, come mi piace chiamarlo.
Dovreste sapere che, quest’anno, nel CCL il sottoscritto era senza ombra di dubbio il più giovane, fresco dei suoi diciotto anni (e anche il più ingenuo, ma questi sono dettagli).
Mi è stato chiesto di fare un piccolo report per Immaginaria in quanto, essendo passato direttamente dal Campo Cadetti all’esperienza del Campolavoro, sono rimasto molto colpito da una realtà che ancora non conoscevo, nonostante i miei dodici anni di assidua frequentazione di Agape.
Quello che posso dirvi, rivolgendomi soprattutto ai cadetti e alle cadette che leggeranno questo numero, è che non c’è percorso più naturale e piacevole, all’interno della vita ad Agape, di quello campista-campolavorista. In parole povere, quest’esperienza mi ha profondamente cambiato, in particolare (ovviamente) nel modo in cui ho sempre visto Agape come centro ecumenico: passare dall’essere campista, cioè “utente” di Agape, all’essere un volontario, una di quelle persone che ad Agape hanno donato la propria voglia di fare, le proprie forze e le proprie passioni, come Agape ha donato loro la possibilità di conoscersi, di imparare e di collaborare, è stata una delle decisioni più naturali che io abbia mai preso.

Non conoscendo ancora nulla di questa faccia del mondo della nostra amata “borgata” – e senza la sicurezza di poter incontrare volti più noti che ignoti, come poteva avvenire durante i Campi Cadetti – ho deciso di iscrivermi al CCL e poi di trattenermi un’altra settimana nei dintorni di Ghigo di Prali per fare qualcosa della mia estate altrimenti priva di impegni.
Il tema del CCL di quest’anno era l’auto-organizzazione, una parola di cui chiunque conosce il significato ma della quale non tutti/e comprendono l’applicazione. Come a ogni campo, la staff ci ha accompagnato in questi sei giorni indirizzando le nostre attività e coordinandoci nei momenti di lavoro, così da poter avere sessanta efficientissimi/e campolavoristi/e in grado di aiutare la struttura dove più ce n’era bisogno.
Come a ogni campo, le attività di dibattito e confronto non sono mancate, tant’è che molti non riuscivano più a distinguere la fatica dovuta al lavoro manuale da quella dovuta al “troppo sforzare” le menti… ma quello che voglio raccontarvi non è solo questo. Vorrei raccontarvi di come, appena arrivato, senza neanche il tempo di rendermene conto, ho incominciato a riconoscere i volti di quelle persone che ad Agape ci sono sempre state, anche quando per me esistevano ancora i “luoghi proibiti” e la terza casetta era solo un miraggio.
Vorrei raccontarvi di come, dopo solo qualche giorno, l’autorganizzazione alla quale si aspirava era praticamente andata a farsi benedire, ma anche di come l’abbiamo recuperata con fare da maestri/e. Vorrei raccontarvi di come ho conosciuto qualche angolo di mondo per me troppo lontano spostandomi da casa mia soltanto con un’ora e mezza in macchina. Vorrei raccontarvi di come, anche se tutte persone adulte, un paio di regole qua e là fanno sempre bene, e di come infrangerle ti faccia sentire in colpa tanto quanto durante un campo cadetti/e. Vorrei raccontarvi di quante cose sono riuscito a rompere e di quante poche sono riuscito ad aggiustare, ma nonostante tutto, vorrei che qualcuno vi raccontasse di come il mio essere un poco incapace mi sia stato perdonato. Ma, se vi raccontassi tutto, potrei rovinarvi la sorpresa che troverete la prossima volta che verrete a vedere coi vostri occhi quello che capita al CCL.

Quindi, spero che questo piccolo report abbia funzionato da “aperitivo”, e che abbia stuzzicato la vostra “fame” e la vostra voglia di venire a scoprire che cosa vuol dire diventare parte del cuore pulsante di Agape, senza troppe pretese e con tanta voglia di fare e scoprire, perché da fare ce n’è – sempre e comunque – e da scoprire ancora di più.
Un consiglio? L’inglese maccheronico è il miglior modo per attaccare bottone.

Davide Mancini

Fare campolavoro accanto ai bambini

Per l’inizio del nuovo anno vi regaliamo un articolo uscito sull’ultimo numero di Agape Immaginaria in cui Laura, giovane campolavorista, racconta la sua esperienza di lavoro durante i campi per bambini.

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Foto di Michele Comba

Sono arrivata ad Agape una settimana prima dell’inizio dei campi dell’estate. Era la mia prima esperienza estiva lassù e, venendo da Torino, mi rilassava tanto: le montagne, l’aria pulita, il panorama e soprattutto la tranquillità e il silenzio; tutto ciò che si sentiva erano gli uccelli, le mucche e il vento. Poi, dopo una settimana, questo silenzio è finito: sono arrivati i bambini del campo Precadetti/e 2. Pensavo che loro e il rumore che facevano mi avrebbero spaventata ma invece no: finalmente ho potuto vedere Agape davvero viva, animata dal gioco e delle risate dei bambini.

Penso che Agape sia fatta per questo: un luogo per dare spazio a bambini/e e adolescenti ma non solo, dove grandi e piccoli/e possono esprimersi, giocare e trovare se stessi/e lontani/e dalla scuola, dai genitori e da tutto ciò che, a volte, lega o vincola…
Per questo mi è piaciuto fare campolavoro durante questi campi: ho visto la vita, la felicità e tutte le emozioni, senza filtro e senza maschere, sui volti delle campiste e dei campisti. A volte li ho sentiti parlare: stavano già pianificando l’estate prossima, per rincontrarsi tutti e tutte ad Agape e non vedevano l’ora di tornare in questo posto magnifico! Ciò mi ha reso felice: mi sono sentita un piccolo pezzo del “puzzle” enorme di Agape e ho avuto la possibilità di modellare e allestire un po’ della loro estate col mio lavoro, sapendo che alla fine di ogni campo c’erano tanti e tante che sarebbero tornati/e molto felici a casa.

Laura Donadio

La comunicazione IN Agape

Concludiamo questa serie di domande sperando che siano state uno spunto interessante anche per chi non ha partecipato alla “diretta” del 30 agosto, ma ha partecipato qui, sulle pagine del sito. Ogni commenti ricevuto è stato prezioso e speriamo che la comunicazione bilaterale attraverso il sito si sviluppi sempre di più! L’ultima domanda riguarda una questione interna:

La comunicazione tra tutte le parti di Agape è necessaria?
È stata rilevata la natura duplice di questo tipo di comunicazione: per essa si intende tanto lo scambio di informazioni necessario al funzionamento di Agape come struttura ricettiva, quanto ciò che dona al Centro la propria peculiarità, nei termini di ascolto, comprensione e scambio. Si è lamentata la mancanza di una spiegazione del progetto di Agape in alcuni campi e come questa mancanza ne abbia minato l’atmosfera generale: chi arriva per la prima volta affronta alcune difficoltà per entrare nei meccanismi e nel linguaggio di Agape: la presentazione del progetto dovrebbe essere, quindi, un momento istituzionalizzato anche nei campi adulti.

Sebbene si sia tutti e tutte d’accordo sulla necessità della comunicazione fra le parti, alcune persone rilevano un’insistenza eccessiva su questo bisogno, che ha come conseguenza l’allungamento dei tempi decisionali, in attesa che tutti e tutte esprimano la propria posizione.

Il linguaggio agapino

Continuiamo con la pubblicazione di alcuni interessanti spunti estrapolati dalla discussione svoltasi all’AAACE 2014. Questa settimana ci concentriamo sul linguaggio Agapino domandandoci se…

Esiste ancora un linguaggio prettamente agapino?
Come linguaggio agapino alcuni intendono anche in senso lato un tipo di approccio, di ascolto e di relazione verso l’altro che è tipico di Agape e l’assemblea era omogeneamente divisa su questa questione. Alcuni sostengono che le modalità quotidiane di Agape forse un tempo potevano essere considerate molto all’avanguardia come per esempio il linguaggio inclusivo, dopodiché, a oggi, per fortuna, moltissime modalità di ascolto, di accoglienza e di accettazione dell’altro si trovano anche fuori, in altre realtà e in altre dimensioni e quindi non c’è un linguaggio prettamente agapino perché il vivere agapino lo si trova anche fuori di Agape e deve essere portato fuori di Agape, perché questo linguaggio deve far parte di noi nella pratica di ogni giorno. Si può apprendere ad Agape, ma non deve rimanere prettamente di Agape. Dall’altra parte dello schieramento non si vuole negare l’esistenza di modalità di linguaggio agapine anche al di fuori di Agape, ma questo non impedisce di parlare di un linguaggio agapino. Inoltre Agape è una comunità e il linguaggio costruisce un’identità della comunità e quindi è vero che esiste un linguaggio agapino perché fa parte dell’identità agapina. In risposta però si sostiene che allora così bisognerebbe parlare di linguaggio di campo perché ogni campo crea una propria identità e un proprio linguaggio e si rischia di arrivare ad una situazione troppo specifica. Un fattore da prendere in considerazione è anche la propria esperienza personale ad Agape perché chi ha cominciato fin da bambino a frequentare Agape, riconosce un certo linguaggio agapino perché è lì che l’ha imparato, mentre altre persone che invece hanno una storia più breve, sentono una certa mancanza di qualcosa, ma per quanto riguarda il linguaggio riconoscono che alcune cose le avevano già imparate da altre parti.

Quando invece il discorso si concentra più che altro sul lessico, allora la fazione del sì si ripopola un pochino, alcune parole come la staff e il servizio creano un poco di incomprensione in alcuni contesti rispetto a qualcosa di cui si sta parlando: se si racconta un fatto agapino spesso la gente attorno che ascolta non capisce nonostante sia un gruppo di amici perché si cerare proprio un’incomprensione di tipo lessicale.

La comunicazione intergenerazionale

Ed eccoci con il nostro appuntamento settimanale sulla comunicazione. La domanda della settimana riguarda la comunicazione intergenerazionale: è possibile, non è possibile… Boh!?! Dicci cosa ne pensi!

La comunicazione intergenerazionale è possibile solo al campo Genitori e Figli?
Soltanto due persone si sono dichiarate d’accordo con questa frase perché, pur auspicandosi la possibilità di questo tipo di comunicazione, rilevano che, per ora, ciò non è stato possibile. A sostegno di questa tesi, sono stati portati gli esempi dei campi intergenerazionali invernali, del campolavoro che raramente favorisce lo scambio tra generazioni differenti, sviluppando un’egemonia del gruppo dei più giovani a discapito degli altri, e dei campi internazionali dove spesso si creano gruppi divisi per nazionalità e lingua. Dall’altra parte, invece, si sostiene che una comunicazione intergenerazionale avvenga costantemente, ad esempio fra campisti/e minorenni e la staff. Tutti e tutte convengono sul fatto che non ci sia un momento istituzionalizzato per la comunicazione intergenerazionale ad Agape: in passato, ad esempio, i campi giovani erano un’occasione di questo tipo.

Un altro modo di intendere la comunicazione fra generazioni è quello di proporre campi per minori su temi, anche storici, che appartengono più a un’altra generazione. L’attenzione posta ai temi ha fatto emergere l’esigenza di proporre campi tematici, senza preclusione d’età, riguardanti argomenti di interesse davvero trasversale.